La materialità che cambia: in conversazione con Sara Enrico

Vincitrice del New York Prize nel 2017, del Menabrea Art Prize nello stesso anno e della IV edizione dell’Italian Council nel 2018, Sara Enrico (Biella, 1979) è la nuova artista italiana protagonista del nostro spazio web. Attraverso un excursus sulle sue passate esibizioni e progetti, in cui ha esplorato le diverse sfaccettature dell’esperienza tattile e della materialità, che l’hanno portata a unire diversi materiali e creare così nuovi linguaggi, Sara ci ha aperto le porte del suo immaginario, facendoci immergere nell’affascinante processo creativo che si cela dietro le sue creazioni, per arrivare ad una considerazione interessante su guanti e mascherine, andando per un momento oltre la loro funzione di “oggetti barriera”, che sembra predominante in momenti incerti come questo.

courtesy gli artisti e Quartz Studio | ph. Beppe Giardino
– Il focus sulla materialità e sull’esperienza tattile della realtà l’ha portata a sperimentare con tessuti e materiali lavorati con mani digitali e non, evidenziandone le interrelazioni con il corpo e lo spazio. Com’è andato consolidandosi questo suo studio? In che modo gli anni all’Accademia di Belle Arti di Torino e poi quello all’Istituto per l’Arte e il Restauro di Palazzo Spinelli a Firenze hanno influenzato il suo processo creativo?
È soprattutto con il restauro che ho iniziato a rileggere alcuni paradigmi della rappresentazione, la decorazione, la materia, e così lo spazio, fittizio o reale. Quella pratica mi ha imposto la disciplina dello sguardo, dell’osservazione precisa, della comparazione costante, perciò, dal pennello finissimo per il ritocco alla preparazione della malta per consolidare pareti cadenti, mi trovavo in continuo movimento, letterale ma anche concettuale: avvicinamento e allontanamento, e cambio di scala proporzionale. Sono rimasti caldi ragionamenti intorno alla superficie di un’immagine e la su potenziale fisicità. Il punto di partenza più immediato e stimolante è stato la tela da pittura, e poi il tessuto in senso più generale, e nella sua relazione spaziale sono arrivata all’abito.

– Nel 2016 realizza Mirroring, un progetto accompagnato dall’esperienza della Fonderia Artistica Battaglia di Milano nella lavorazione del bronzo e nella tecnica della fusione a cera persa. Il risultato sembra essere un incontro e un dialogo tra diversi materiali e tecniche di lavorazione, da cui si potrebbe dire essere scaturito un nuovo tipo di linguaggio e una nuova materialità. Come nascono il progetto e il titolo “Mirroring”?
I Mirroring li ho realizzati trascorrendo un periodo di lavoro in fonderia, e un nuovo pezzo è stato presentato di recente da Quartz Studio, a Torino. Questa serie ha a che fare con la questione della copia, della trasformazione e della perdita che questa porta con sé. Nell’osservare una forma attraverso una membrana fluida come quella dell’acqua, essa si spezza, perde i confini netti, ed è un interessante sistema di relazione tra elementi. Così succede, in senso più macroscopico, nei materiali e nelle forme che decidi di accostare, l’una deforma l’altra. Il bronzo dei Mirroring entra nel tessuto di neoprene (quello per le mute da sub) e pare instabile nel suo districarsi in quel tessuto, reclama un proprio spazio. Una parte significativa è stata la fusione a cera persa, e il modo non canonico con il quale ci sono arrivata. Da certe affinità tra il piano deformante dello specchio d’acqua e i “disturbi” del segno digitale ne ho tratto disegni, a tavoletta grafica, che ho riprodotto unendo sottili candele di paraffina. Queste vengono usate come canali di colata nella tecnica a cera persa, io le ho invece modellate, seguendo il segno tipicamente sgranato di un disegno digitale ingrandito.

Photo (c) National Gallery Prague, Katarina Hudačinová
– In à terre, en l’air realizzata nel 2017 ed esposta al TILE Project Space di Milano, gli oggetti collocati nello spazio sembrano interagire con esso e creare una narrazione da cui non è escluso lo spettatore, ma che al contrario è al tempo stesso agente e reagente di un’azione performativa iniziata con l’incontro di diversi volumi e superfici. C’è stata una scintilla o una fonte d’ispirazione che ha contribuito alla formulazione di questi progetto e pensiero affascinanti? Che materiali ha impiegato nella lavorazione?
Spesso quando scelgo un titolo mi soffermo su come lo avverto se pronunciato più volte, o sulla prima immagine che viene in mente al leggerlo. Quel titolo rimbalzava bene in bocca e conteneva due spazi e due azioni (quei termini sono della danza) che potevano conferire una certa musicalità e ritmica alla disposizione dei lavori in quello spazio, connotato dalle piastrelle che, guardate in maniera prospettica, mi sono parse una base fisica per una possibile partitura.
Ho usato cemento e tela da pittura per i Cactus (sculture che danno corpo, attraverso una piccola colata di cemento, al vuoto presente all’interno del rotolo di tela, la quale funziona da contenitore e nel lavoro finito rimane solo come impressione sulla superficie), gommapiuma e tessuto tecnico per gli RGB (skin), poliuretano e pigmenti, unghie e ciglia finte per i Cut out.
Mi piace la domanda sui materiali, senza aggiungere null’altro e ritornando altitolo, si dispiegano da sé letture molteplici.

– Nel 2019 arriva The Jumpsuit Theme, esposta al Mart Rovereto e accompagnata dall’omonima mostra esposta alla Galleria Nazionale di Praga. In che modo la tuta le è servita da ispirazione per questo progetto? Ci sono stati alcuni momenti nella storia della moda che l’hanno guidata nella definizione dell’opera? Quali materiali sono stati utilizzati per la sua realizzazione?
Un cartamodello è stata la prima immagine che ho visto della TuTa a T, inventata nel 1919 da Ernesto Michahelles, detto Thayhat: alcune istruzioni ed un disegno, di facile realizzazione e semplicità di materiali, per farsi autonomamente una tuta. Lo sviluppo di quella tuta, dalla forma geometrica ma versatile, ha incontrato un principio che volevo usare per fare delle sculture con il tessuto, in quanto materiale morbido. Volevo imprimere e registrare con il calco un’idea di pelle e di volume, una gestualità fisica minima, quasi intima. Lavorare sulla forma della tuta mi è parso di gran fascino, anche per le molte e variegate implicazioni intorno a quel capo.
Thayhat mi ha portata alla stilista francese Madeleine Vionnet, con la quale collaborò per qualche tempo, e alle sue osservazioni sulla concezione del taglio del tessuto, su come pensare un modello e sull’uso che lei faceva di un manichino da belle arti, prediligendolo a quello da sartoria. Mi sono resa conto di quanto i loro metodi fossero vicini a quello con cui io intendo la scultura, a partire da un supporto morbido e flessibile come la tela o il tessuto. Tramite la piega si costruisce uno spazio, una prima possibilità di contenere; dalla piattezza si passa al volume. Così l’idea di variazione sul tema (il Theme del titolo) è stata una possibilità di lavoro sulle pose, sullo spazio. In questo senso il progetto si compone di sculture nate da tute-cassaforma, di stampe realizzate lavorando con lo scanner e di una installazione in tessuto che gioca tra essere un abito in costruzione ed uno spazio, un Camerino, come suggerisce il titolo stesso di quel lavoro. Le due mostre sono come due atti: Intermezzo al Mart di Rovereto e Camerino alla Galleria Nazionale di Praga. Sulla tuta e sul taglio sartoriale, nella sua concezione occidentale ed orientale, sono molti gli esempi e gli impieghi, mi piacerebbe rielaborarne di nuovi nei prossimi lavori. Parlando dei materiali: cemento mescolato a pigmenti, gesso pigmentato per le sfere, le stampe sono montate su lastre di alluminio, e l’installazione a Praga è dello stesso tessuto, un PVC tramato, con cui ho realizzato le tute-cassaforma per le sculture.

ph. Mart, Archivo fotografico, Alessandro Nassiri
– La più recente Mai un vestito dunque, adeguato realizzata insieme ad Andrea Respino ed esposta al Quartz Studio di Torino dal 16 settembre al 23 ottobre 2019, ha raccontato un’unione tra due artisti, tra pittura e scultura, incentrata sulla questione dell’abito e sull’incertezza ad esso legata, visibile attraverso la pittura di Respino, in cui i soggetti appaiono parzialmente vestiti. La sua scultura sembra accompagnare questo motivo, accostandosi ad esso attraverso una narrazione tattile. La potenza e la memoria tattile di un abito sono forse le qualità più evidenti quando se ne fa esperienza toccandolo o quando lo si indossa. Secondo lei l’abito nasconde altre forme di linguaggio? In che modo il digitale influirà sulla concezione materiale che abbiamo di un abito?
L’abito è una forma che si attiva se messa in azione, altrimenti è un oggetto che ci sembra mancante, un potenziale… lo puoi guardare dunque in modi diversi, e questi corrispondono sia alle tue abitudini sia al modo in cui l’abito stesso si presenta, indossato, oppure su un manichino, una gruccia, talvolta è visto di piatto, tralasciando la questione della vestibilità. Tirando in ballo quel “potenziale”, quel “come mi starebbe” si aprono questioni esistenziali e politiche, la nostra necessità di autodefinirci, di vederci con l’abito giusto, adeguato a noi, là dove c’è armonia tra l’interno e l’esterno. Nella mostra realizzata con Andrea abbiamo in qualche modo voluto sottolineare la precarietà di questa condizione di armonia, e lavorare sulla sua fragilità. E quel titolo, come una frase che sta nell’aria…
Non ho una visione chiara in merito al rapporto tra digitale e abito nello specifico, ma posso dirti dei miei lavori con il tessuto, lo scanner e i software digitali. Lì sento che è forte la necessità e l’importanza di mettere in stretta relazione la fisicità di un elemento con la possibilità di lavorarlo digitalmente per instaurare un’esperienza “aptica”, la qualità con cui il nostro occhio è in grado di toccare, di riconoscere a distanza la sensazione tattile e materiale di un oggetto o di una superficie.

– Guardando gli eventi che stanno sconvolgendo il mondo intero, viene da pensare che forse qualcosa cambierà nel modo di approcciarci alla realtà, di fare esperienza della materialità. Consideriamo semplicemente il fatto che per molto tempo dopo questa quarantena molti toccheranno oggetti, persone, attraverso un guanto di plastica o respireranno attraverso una mascherina. Ha pensato agli effetti che questi nuovi modi di interagire con la realtà possono produrre nella sua arte? Secondo lei si creeranno nuove narrazioni e linguaggi intorno alla materialità? In che modo l’arte può raccontare questa
esperienza collettiva?
Pensando ai guanti e alle mascherine lascerei da parte, per un momento, la questione contingente, e sanitaria. Mi concentrerei su ciò che comunicano, di strano e particolare, al di là d’essere visti ora puramente come “oggetti barriera”.
Nella ritualità sociale, gesti e oggetti sono molto legati, recando in sé indicazioni complesse, talvolta ambigue, cosa che li rende potenzialmente poetici. Il guanto e il gioco di intrigo che poteva scatenare a livello immaginifico stavano al centro infatti di complicati maneggi presso le corti rinascimentali e nell’Ottocento era simbolo di seduzione ed erotismo. Chissà come andrà trasformandosi, ulteriormente, il livello di significazione di questi oggetti. Per venire alla tua questione, il nostro rapporto con la materialità è costantemente in ridefinizione e questo moto a me interessa in quanto ricerca di possibilità per dare forma e consistenza tattile a materiali poco considerati in quel senso, nonché a pensieri e visioni che di loro tenderebbero a rimanere astratte.
– Ha qualche nuovo progetto in via di realizzazione di cui può anticipare qualche dettaglio?
È in lavorazione una pubblicazione insieme a Nero e al Mart che raccoglie testi, disegni ed immagini intorno all’ultimo progetto, The Jumpsuit Theme.