USA: La crisi dei grandi magazzini

Il diffondersi dell’epidemia da coronavirus e l’emergenza sanitaria che ne è conseguita sta avendo un impatto durissimo su molte realtà del settore fashion, alcune delle quali rischiano di non riprendersi da una crisi che è ormai alle porte.
In questo scenario si collocano anche i grandi magazzini, che hanno dovuto prendere misure severe per cercare di arginare gli effetti del colpo subito. Il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti ha stimato che le vendite nei negozi di abbigliamento e accessori si sono dimezzati del 50,5% già a marzo e che subiranno un ulteriore calo nei prossimi mesi.
A seguito di questa brusca frenata Macy’s, proprietario di Bloomingdale’s, ha messo in cassa integrazione la maggior parte dei suoi dipendenti, ha bloccato le assunzioni e annullato gli ordini della merce.
Lo Studio Cowen ha inoltre calcolato che molte altre grandi catene di distribuzione tra cui Nordstrom e J.C. Penney possono resistere in questo modo solo per altri 8 mesi e alcune anche meno. Si prevedeva infatti che Neiman Marcus, anche proprietario di Bergdorf Goodman, fosse uno dei primi a crollare e infatti hanno appena dichiarato di essere in bancarotta assistita. Sono stati chiusi 48 punti vendita.
Ad accelerare questo progressivo crollo c’è anche il fatto che i grandi magazzini avevano precedentemente accusato il colpo dell’avvento dello shopping online, di realtà fiorenti come Amazon e del sistema del fast fashion, che ha contribuito ad eliminare dal mercato piccole e grandi realtà.
La caduta della maggior parte dei grandi magazzini impatterà anche la conformazione urbana delle città; la Robert Burke Associates prevede infatti che a seguito dell’emergenza potranno esserci uno o due magazzini per città rispetto ai cinque in media che erano attivi prima della pandemia. Oltre alla modifica del piano urbano, c’è da considerare l’aspetto umano e sociale. Già nel 2008, durante la crisi che colpì gli Stati Uniti si registrò un incremento oneroso delle persone nella lista di disoccupazione. All’epoca, la contrazione del PIL arrivò all’8,4%. Il Fondo Monetario Internazionale prevede una contrazione del 5,9% nel 2020.
Per far fronte alla grave perdita economica che i grandi magazzini vanno subendo, molti stanno attuando una strategia che prevede il congedo non retribuito per molti dipendenti, che vanno ad accompagnare le riduzioni degli stipendi da parte dei CEO e degli amministratori esecutivi.
Il gruppo Tapestry, che vanta marchi quali Coach, Stuart Weitzman e Kate Spade, ha eliminato 2.100 posti di lavoro part time nei negozi già dal 25 aprile. I dipendenti hanno ricevuto un risarcimento di 1000 dollari (equivalenti a circa 923 euro). Il suo Consiglio di Amministrazione ha ridotto del 50% la sua retribuzione. Gli altri membri operanti in Nord America che si occupano della vendita al dettaglio dei prodotti Tapestry continueranno a ricevere il salario e i benefici sociali fino al 30 maggio.
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Un approccio simile è stato adottato da Arcadia, che possiede Topshop e Dorothy Perkins. Il gruppo ha congedato senza retribuzione circa 14,500 persone. Anche Primark, che sta perdendo 650 milioni di euro al mese, ha chiuso tutti i suoi store nel Regno Unito e congedato senza paga circa 30,000 persone a partire dal 5 aprile. Sono state attuate anche significative riduzioni sulla retribuzione del CEO e degli esecutivi.
Tante altre realtà stanno subendo lo stesso destino, tra cui il gruppo PVH (Calvin Klein e Tommy Hilfiger), che ha messo in congedo non retribuito il 75% dei suoi dipendenti e la Capri Holdings (Michael Kors, Versace) che ha congedato senza paga 7000 dipendenti del Nord America.
Seppur rimane ancora incerto il futuro del settore, ciò che emerge da queste contromisure è che a cambiare non sarà solo il modo di produrre e distribuire la moda, ma anche l’assetto sociale e urbanistico di un intero paese.